Quando un utente richiede la rimozione di un contenuto personale presente online che lede la propria reputazione personale e/o professionale, è possibile che la sua richiesta non venga completamente accolta e venga riconosciuta non l’eliminazione totale bensì la deindicizzazione di tali contenuti. Con essa si intende la permanenza online (ad esempio negli archivi giornalistici) della notizia o del dato personale, che però non può più essere rintracciato usando come chiave di ricerca il proprio nome o dati ad esso collegati. Un motore di ricerca, infatti, deve contemporaneamente garantire il diritto alla privacy e all’oblio del singolo, ma anche il diritto di informazione al pubblico.
Cosa ha stabilito la Cassazione
In quest’ottica, l’ordinanza del 19 maggio 2020 della Corte di Cassazione ha stabilito che per ottenere il giusto equilibrio tra i diritti fondamentali della persona ed il diritto alla libertà di espressione, il gestore del motore di ricerca è responsabile del trattamento dei dati personali e deve quindi operare di conseguenza nell’ambito delle informazioni indicizzate nel suo motore di ricerca. Egli deve quindi provvedere ad eliminare il link di raccordo verso pagine web dell’archivio online che riportino informazioni sulla persona il cui nome sia stato digitato sulla query del motore di ricerca. Questa decisione della Corte di Cassazione implica però diverse conseguenze: innanzitutto, l’eliminazione dei link di raccordo tra gli archivi giornalistici e le query di ricerca contenente il nome dell’interessato non implicano tuttavia l’eliminazione delle notizie dagli stessi archivi. Le informazioni personali continuano quindi a permanere online ma non vengono indicizzate tra i risultati di ricerca nel momento in cui si ricercano i link associati al proprio nome (di qui “deindicizzazione”). In questo modo, viene garantita la tutela del diritto all’oblio del richiedente ma non viene meno la medesima attenzione che deve essere data al diritto di manifestazione del pensiero, di libera espressione, di cronaca e di conservazione delle notizie per fini storici-sociali e documentaristici. L’informazione in questione infatti, rimanendo online, può essere rintracciata usando altre chiavi di ricerca che non siano ad esempio il nome dell’interessato.
Inoltre, da questa sentenza di Cassazione è possibile dedurre che il trascorrere del tempo è un elemento significativo per l’esercizio del diritto all’oblio: quando infatti le notizie in questione non vengono più aggiornate da tempo e non hanno perciò più motivo di interesse pubblico, in quanto dimenticate o ignote alla generalità dei consociati, possono e/o devono essere rimossi al momento della richiesta dell’interessato.
Nel caso in cui il motore di ricerca oggetto della richiesta non accolga il reclamo dell’interessato, è possibile per lui rivolgersi all’Autorità Nazionale per la Protezione dei Dati Personali o direttamente all’autorità giudiziaria. In conclusione, secondo i princìpi stabiliti dalla Corte di Giustizia Europea ed ai sensi dell’art.2 lettera d) della direttiva succitata 95/46 del Parlamento Europeo, il gestore del motore di ricerca è considerato colui che è responsabile del trattamento dei dati personali ed è obbligato a rimuovere dall’elenco dei risultati che appaiono in seguito ad una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web di terzi che contengono informazioni relative alla persona stessa. Ciò è valido anche nel caso in cui tali notizie fossero state originariamente pubblicate in modo lecito o nel caso in cui fossero già state cancellate dalle pagine web in questione (rimozione di contenuti detti “obsoleti”).