Perché Google ha pagato i danni per non aver rimosso dei video in Australia

Una fonte di guadagno di Google avviene anche tramite YouTube, attraverso la condivisione dei video. Questo, però, comporta anche la responsabilità dei contenuti che vengono diffusi tramite la piattaforma. È proprio da questo principio che è stato condannato a pagare 715.000 dollari australiani (circa 480.000 euro) all’ex politico John Barilaro, per non aver rimosso dei video caricati su YouTube e contenenti ripetute offese ai suoi danni.

La vicenda

Il fatto riguarda un noto Youtuber, Jordan Shanks, che conta da febbraio 2013 ad oggi, circa 626.000 iscritti e 175 milioni di visualizzazioni. Due videoclip pubblicati sono finiti al centro dell’attenzione, scatenando non poche polemiche, a causa di contenuti diffamatori e razzisti nei confronti dell’ex premier Barilaro. La vicenda risale al 2020, anno di pubblicazione dei due video “incriminati” ed hanno ottenuto più di 800.000 visualizzazioni, finendo per danneggiare pesantemente la carriera di John Barilaro, che decise a sua volta di allontanarsi dalla politica. La contesa si risolse con un accordo bonario tra i due protagonisti (il risarcimento che Shanks verserà a Barilaro sarà di 100.000 dollari) ma per il Tribunale resta la colpevolezza di Alphabet Inc., la holding che raggruppa le attività di Google. Per il giudice Steve Rares, infatti, la ripetizione di termini come corrotto ed altri insulti legati alle origini italiane dell’ex premier, hanno rappresentato un comportamento del tutto inappropriato, soprattutto perché Shanks ha conferito più volte parole d’odio e Google è colpevole di “non aver protetto la figura pubblica presa di mira in maniera ingiusta, tanto da traumatizzare Barilaro e spingerlo ad abbandonare la politica“.

La reazione di Google

Per il colosso americano le frasi incriminate non oltraggiano l’onore di Barilaro né, tantomeno, possono essere considerate diffamatorie e lo youtuber ha agito in nome della libertà critica nei confronti di un rappresentante politico. Tralasciando il caso specifico, questo verdetto potrebbe a sua volta “essere pericoloso” soprattutto perché casi simili si contano all’ordine del giorno soprattutto su una piattaforma utilizzata da milioni di utenti e potrebbero essere affrontati allo stesso modo anche in altri Paesi. È pur vero che i Paesi che equiparano agli editori le compagnie dietro le grandi piattaforme social sono ancora pochi, come per esempio in Australia, ma allo stesso tempo questo precedente potrebbe rappresentare un modello per affrontare la delicata rete di responsabilità, tra i fruitori e i gestori di questi servizi.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: