La crescente consapevolezza degli utenti in materia di Privacy e Diritto all’oblio ha spinto i colossi della rete (Google, Youtube e altri) a correre ai ripari, proclamando la loro assoluta neutralità rispetto alle condotte e, soprattutto, ai contenuti pubblicati attraverso i loro portali. In realtà però la situazione non è così chiara, in quanto l’evoluzione dei social network e dei motori di ricerca ha radicalmente modificato la natura dei regimi di responsabilità applicabili nelle ipotesi di diffusione dei dati personali in rete da parte di terzi. Prima di approfondire concretamente i profili di responsabilità dei grandi di internet, occorre innanzitutto dare una definizione di ISP e Content Providers. Per Internet Service Provider (in italiano Fornitori di servizi internet) si intende di norma una società che fornisce, a privati come ad altre compagnie, servizi legati ad internet (posta elettronica, accesso alla rete, hosting, ecc); dal momento che la sua attività non comporta alcuna verifica o controllo delle condotte concretamente poste in essere dagli utenti, per anni si è ritenuto che l’ISP non fosse in alcun modo responsabile dei dati personali utilizzati attraverso i suoi servizi.
Infatti, questa attività di “intermediazione digitale” non dovrebbe essere assoggettata al regime di responsabilità previsto dalla Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE (attuata in Italia con D. lgs. n. 70/2003), a norma della quale gli ISP non possono essere ritenuti responsabili dei contenuti inseriti dagli utenti sui propri sistemi informatici, salvo che non venga dimostrato che essi stessi abbiano modificato o originato detti contenuti o, semplicemente, abbiano cambiato le informazioni trasmesse tramite i propri servizi (così diventando a loro volta Content providers).
Quando però il motore di ricerca (o l’aggregatore di contenuti) non si limita ad ospitare il contenuto esterno ma, con il proprio operato, incide anche sul suo contenuto attraverso altre attività, aggiuntive ed ulteriori rispetto alla sola raccolta delle informazioni, si pone il problema di individuare la giusta definizione di tali figure; ad esempio, attraverso la indicizzazione delle URL, l’evidenziazione dei contenuti o la loro semplice organizzazione, un motore di ricerca può sensibilmente influenzarne la disposizione tra i risultati di ricerca correlati ad un nome o ad un oggetto. In questi casi, la Giurisprudenza nazionale ha tentato di definire i confini tra ISP e Content provider proprio in funzione della portata innovativa sui contenuti da parte del fornitore dei sistemi informatici; in una causa contro Google, il Tribunale di Milano ha ritenuto che i servizi di completamento automatico o di ricerca correlata non presentino i requisiti di neutralità e terzietà propri dell’attività del Service Provider, dovendosi invero ritenere che detti servizi integrino un comportamento attivo del motore di ricerca nell’aggregazione dei dati. Con queste basi, Google non può più essere definito come semplice Internet Service Provider, mancando nella sua attività quei presupposti di non ingerenza e neutralità richiesti dagli artt. 14 e ss. D. lgs. 70/2003 ai fini dell’esclusione della responsabilità connessa ai contenuti in esso reperibili.