I motori di ricerca sono ormai i primi luoghi in cui cerchiamo delle opinioni, delle risposte o delle recensioni su un brand, un’azienda o un determinato professionista. Questo perché, quella che prima era la reputazione costruita dal vivo, tramite il passaparola e l’esperienza diretta con un prodotto o servizio, è stata quasi totalmente sostituita dalla web reputation, ovvero l’opinione pubblica che si costruisce sul web in base alle informazioni e notizie personali presenti online.
Tra i motori di ricerca, Google è sicuramente il più diffuso ed utilizzato, ma di certo non l’unico; tra i tanti, potremmo citare infatti anche Bing che, allo stesso modo di Google, è spesso oggetto di richieste di rimozione contenuti dai risultati di ricerca.
Un esempio di provvedimento preso dal Garante per la Protezione dei Dati Personali (GPDP) che coinvolge entrambi questi motori di ricerca, Google e Bing, è il Provvedimento del 30 aprile 2020 n° 9426491. Esso riguarda un reclamo presentato all’Autorità Garante il giorno 20 maggio 2019 con il quale l’interessato, in accordo con il suo avvocato difensore, aveva deciso di non fermarsi al rifiuto della sua richiesta rimozione contenuti a Google LLC e Microsoft e di continuare a rivolgersi direttamente al Garante della Privacy. Nello specifico, l’interessato richiedeva la rimozione da questi due motori di ricerca di alcuni URL collegati ad articoli contenenti notizie personali relative ad una vicenda giudiziaria nella quale è stato coinvolto, conclusasi nel 2017 con una sentenza di applicazione della stessa pena su richiesta delle parti, della quale non è fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale, e con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Nonostante gli sviluppi giudiziari e le garanzie previste dal Regolamento con riguardo al trattamento dei dati giudiziari, le notizie inesatte e non aggiornate continuavano a permanere online ed a ledere in modo inappropriato la propria reputazione personale e professionale.
Procedendo con una richiesta di rimozione dei risultati sia a Microsoft per la rimozione dei risultati da Bing che a Google LLC per la rimozione da Google, il diretto interessato ha però trovato esito positivo solo dalla prima parte, in quanto solo Microsoft ha accettato la richiesta e rimosso gli URL dai risultati della ricerca. Google, al contrario, dichiarava di non poter adottare tali misure per l’esercizio del diritto all’oblio in quanto si trattava di cronache giudiziarie ancora molto recenti ed in quanto il diretto interessato era stato indagato ed accusato di corruzione patteggiando, infine, una condanna per la pena di un anno e 8 mesi di reclusione.
Il reclamante aveva però ribadito come egli non rivestisse più da 4 anni ormai ruoli pubblici o di dirigente della società coinvolta e come questo fosse l’unico episodio isolato in una condotta ligia e rispettosa delle regole nel resto della sua vita; inoltre, tali notizie non aggiornate con la conclusione dei processi provocavano un impatto sproporzionato sui suoi diritti e non bilanciato dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale ad averne conoscenza.
Pertanto, il Garante per la Protezione dei Dati Personali ha fortunatamente ritenuto fondato il suo reclamo ed ha ingiunto a Google di rimuovere gli URL in questione dai risultati di ricerca in associazione al suo nome entro venti giorni dalla ricezione della segnalazione. Tra le altre motivazioni di tale decisione, quella fondamentale può essere considerata la volontà di coerenza con il beneficio concesso dall’ordinamento: tale beneficio infatti era finalizzato a limitare la conoscibilità della condanna subìta dal soggetto e sarebbe stato vanificato nel caso in cui fosse stato consentito al gestore di un motore di ricerca di trattare ulteriormente tale dato attraverso la reperibilità in rete di esso, pregiudicando così la sfera giuridica dell’interessato.